martedì 17 gennaio 2017

Le foto di Stefano Cucchi

Da qualche tempo circola su internet la foto del cadavere di Stefano Cucchi, il ragazzo romano morto in ospedale nel 2009  in circostanze ancora da chiarire e di cui si continua a parlare da quasi 10 anni. 
Quella foto mi ha colpito, come credo succeda ad ogni essere umano provvisto di un minimo di sensibilità. Il suo scopo è dimostrare quanto la giustizia sia ancora troppo teorica all'interno del nostro sistema legislativo, legata più a voli pindarici che non propriamente ai fatti che hanno la forma di lividi e fratture lungo il corpo martoriato del ragazzo, simile ad una mummia peruviana.
Non sto qui a giudicare, non è il mio compito e manco di competenza in materia, spero solo che si giunga alla verità un giorno o l’altro. Mi permetto solo di aggiungere che quel genere di contusioni credo siano difficili da farsi con una “caduta”. Comunque...
Quello su cui volevo riflettere riguarda il senso, o più propriamente il significato di quelle foto: da una parte le trovo fastidiose, perché ad ogni articolo di giornale, ad ogni ricerca su internet (anche non legata al suddetto fatto), ad ogni telegiornale o blog, spuntano fuori cogliendomi impreparato, sorpreso, impaurito. E trovo che diffonderle cosi liberamente e sfacciatamente sia una mancanza di rispetto per il defunto, divenuto “quasi” un’icona pop del nostro tempo.
Poi penso alla famiglia, ad una ricerca della verità che si prolunga da 8 anni, e che trova in quelle rappresentazioni crude, violente e flagranti l’unica speranza di giustizia: “Guardate con i vostri occhi e giudicate”. E forse le foto diventano il mezzo per rafforzare la dignità della vittima.
Ma perché dobbiamo arrivare a tanto? Perché ad ogni morto, ad ogni testa decapitata dall’ISIS, ad ogni tragedia ambientale (quale terremoti, incendi, alluvioni) i media devono “godere” di queste immagini moltiplicandole in ogni luogo e in ogni forma? Perché dobbiamo far vedere per credere?
Per me si tratta di una pericolosissima forma di feticismo; nel caso di Stefano Cucchi lo capisco, e ho paura che possa accadere lo stesso per Giulio Regeni, riconoscibile solo dal naso come raccontato dalla madre durante il riconoscimento del corpo.

In generale lo condanno, la morte non è un poster da appendere in camera, è un fatto della vita che va rispettato in quanto tale.