mercoledì 5 luglio 2017

Colombo e il vino negro dulce

Una barriera di sole e di azzurro.

Questa è stata la prima impressione che ho avuto una volta atterrato a Barcellona: una perla di luce ai piedi del mare.

Dopo l'austera Madrid, la gitana Granada e la bollente Siviglia, sono tornato in Spagna per andare a trovare mio fratello che vive a Barcellona, una vacanza in stile Bros: vino, scoperta e Colombo. 

Si, Colombo, perché quando vedi il Cristòfor Colom alzarsi verso il cielo  per 60 metri puntando le Americhe (non è vero, ma mi piace pensare che sia cosi), quasi a voler spaccare in due il Mediterraneo con la forza di un solo dito, beh... ti emozioni. 

Colombo è il "guardiano" del Portal de la Pau, egli unisce les Ramblas al Passeig de Colom, cosi come aveva congiunto il vecchio al Nuovo Mondo. E non credo ci sia un posto migliore per rendere omaggio alla scoperta, al mare e al miscuglio di culture differenti. 

Barcellona è un grande porto, fatto di pietra, ceramica e colore. Per certi versi ricorda Lisbona, un po' diroccata nei caruggi in cui si appollaiano musicisti, artigiani e turisti. 

Mentre consumavo le piante dei piedi lungo queste vie, pensavo che mi sarebbe piaciuto vivere li. Vedete, io vivo in Francia da qualche anno, a Grenoble per la precisione, dove la gente non è esattamente il top, per ragioni più che lecite, voglio dire sono montanari, di certo non mi aspetto tutto questo affetto; ma andando oltre mi rendo conto che sono stressati qui, sospettosi: l'affare del singolo e più importante del bene comune, e questa malattia grenoblese si attacca come la peste, te la porti dietro tutti i giorni, dalla mattina alla sera. 

A Barcellona non ho avuto quest'impressione; ovvio che attraverso gli occhi del turista tutto assume un'altra dimensione, specialmente quando vai a mangiare in un ristorantino che assomiglia più alla cantina di mia nonna, con gente che ti parla in catalano o in spagnolo, a te che sei un marchese francese (nel senso che provieni dalle Marche pur vivendo in Francia). Ma la magia sta tutta li perché non c'è differenza, e una parola qua, una parola là comunichi, alimentando il tutto con copas de vino negro dulce.

Poi c'è tuo fratello, quello con cui parlavi la notte quando ancora avevi un letto a castello, che ti cazziava quando esageravi; quello a cui io, la mente, leggevo la guida a Resident Evil 2 e lui, il braccio, eseguiva; quello che sperava di vederti migliore in tante cose e che ti chiede ancora di cantargli una canzone che hai scritto qualche tempo fa. Quello con cui urlavi quando Del Piero piazzava una magia. Quello che ti dice sempre ti voglio bene e a cui rispondi in stile Ian Solo: "lo so". 

Ecco, so che sta bene, che Colombo e Barcellona stanno li a fargli ombra con le loro spalle larghe. 

Hasta pronto.  

lunedì 13 febbraio 2017

Il cavaliere che si immerse nella lacrima di un cane

"Per otto ore ho avuto il potere assoluto. Per otto ore mi sono ritrovato a dominare il tempo e lo spazio a mio piacere, a creare spirali di immagini tridimensionali da ogni superficie presente nella stanza.
Leggevo i sentimenti e i comportamenti delle persone come fossero quaderni. I loro visi mutavano ad ogni battito di ciglia, cosi come la loro integrità morale, picconata ad ogni goccia di distillato.

Le parole uscivano e si stagliavano nell'aria, potevo modificarle a mio piacimento, rallentando il tempo del pensiero per trovare termini meticolosi, come "meticoloso" ad esempio.

So dell'esistenza di una città rinchiusa nel primo vortice basso del numero 8, un ingranaggio posto ai limiti del mondo: si presenta come la scenografia di un teatro, due tende trasparenti rispecchiano un cielo blu che sfuma in un profondo spazio nero illuminato da centinaia di lumini. Sopra i tetti delle case delle bandiere e dei palloncini rossi si stagliano al cielo come simbolo di pace. No, nessun riferimento politico, non esistono in quel posto. Vivono di altro.

Nel frattempo un uomo su un vascello del 1792 dalla prua dorata a forma di sirena termina il suo progetto costituito da una scopa di paglia e dai pezzi di un vecchio timone; il fantoccio è pronto, ha finalmente generato sua moglie.
Ma il capitano dalla feluca grigia (altrimenti conosciuto come Volpe Grigia) gli rimprovera il progetto sillabando a misura di sputo il grado di stupidità del suo sottoposto:

- Cos'è quell'obbrobrio? Lo getti via! Non siamo in un bordello dove voi cani pazzi gettate le vostre luride monete tra donne sifilitiche e carte da poker!

- No ma, vede Capitano io, io non posso farlo... come penserebbe Dio? Uccidere mia moglie cosi... no Capitano devo desistere da tale ordine. Desolato.

E mentre i due continuavano il giocoso e puerile alterco, un imperatore cavaliere cominciava il suo viaggio di conoscenza. Chiese la sua armatura migliore, quella fabbricata dalle scaglie del re salmone; domandò la sua lancia da viaggio su cui aveva fatto costruire due ruote al fine di cavalcarla come uno skateboard dei nostri giorni.
Egli vago per anni tra i mondi più o meno accessibili, ma soltanto quando la speranza stava per sotterrargli l'animo con l'ultimo tocco di terra umida, ecco che egli giunse alla porta degli universi.

Il guardia di porta aveva la forma astratta di un cane che apostrofò per la prima e ultima volta le seguenti parole ad un umano:

- Tu, cavaliere dall'armatura di salmone, sei giunto nel luogo ultimo della conoscenza. Aldilà dei miei occhi vi sono universi che nessuno ha mai sognato, luoghi che esistono solo nella mente degli dei, i cui principi devono seguire una determinata ragione. La rottura di questi principi causerebbe il crollo del reale. Non posso lasciarti passare.

- Guardiano, come può la conoscenza causare una tale rovina? Io devo sapere, gli uomini mi hanno affidato il compito. Vedi, tu che sei guardiano degli universi ultimi non hai bisogno del fuoco del sapere per sopravvivere. Noi esseri umani siamo destinanti all'oblio della nostra stessa razza, quella sarebbe la vera rovina.

- Ammiro la tua dedizione, ma saltando nei miei occhi verrebbe meno il primo principio dell'universo, e i fili retti dalle secolari signore si spezzerebbero causando la caduta del quarto principio. Vedi, ci sono delle cose che non si devono conoscere, tutti voi siete destinati a scoprirle, ma al momento propizio.

Ma l'imperatore non attese null'altro  che l'ultimo sussulto del guardiano. Con un balzo di rara felina bellezza distese le scaglie rosa dell'armatura sussurrando tutti i desideri degli essere viventi; il salto lo vide atterrare sul bordo del mondo che scese sulla guancia del cane come una lacrima di stelle. Arrampicandosi lungo il canale di comete il cavaliere venne risucchiato dal vortice di scoperta che solo gli dei creatori potevano aver immaginato.

Vennero cosi meno i principi dell'universo a scapito della conoscenza."


Tutto quello che avete letto è il risultato di un pezzettino di space cake mangiato ad una festa sabato.

Ho visto la realtà.






martedì 7 febbraio 2017

Il primo bacio

Il mio primo bacio fu un fugace battito di labbra. Eppure me lo ricordo bene.

All'epoca ero quasi bello: avevo una timida barba disegnata a matita, un torace da nuotatore e lo spirito guerriero, nonché degli occhiali neri, sottili, che si amalgamavano al viso tondo della gioventù. Avevo 19 anni, quasi dieci anni fa.

Successe alla mia festa di compleanno, evento mondano di una certa qualità (scadente); era un giorno nei primi di dicembre del 2008.

Sappiate che un anno prima ero stato complice della più grande celebrazione mai vista in terra fermana: quei 18 anni tanti agognati erano cominciati col botto, come giusto che fosse. I reduci la ricordano ancora tramandando il mito di un evento rimasto nel cuore dei più.

Tornando al 2008, decisi di fare una festa semplice, ridotta agli amici più intimi di quel periodo della mia vita. Una sala affittata al centro sociale sotto casa, musica, birre e 300 kg di tiramisù, le cui proprietà curative sono note sin dai tempi oscuri.

Vedete era il mio primo anno d'università... eppure continuavo a pensare alle scuole superiori con una certa nostalgia ben ancorata sulle spalle. La mia testa era come un cesto di vimini che continuava a riempirsi di esperienze, persone nuove, indipendenza, viaggi e ragazze mai avute. Con gli amici di allora si facevano tante cose, probabilmente sempre quelle, ma avevano sempre un gusto particolare. Averli li era per me motivo di orgoglio, una famiglia allargata, pronta ad afferrarti ad ogni, inevitabile, sgambetto dell'immaturità.

A vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età...

Tra questi amici, vecchi e nuovi, c'era una ragazza, compagna di studi. Io non avevo mai pensato a lei in quella certa maniera che noi maschi conosciamo bene, eppure il potere di un bacio è in grado di distruggere qualsiasi Nazgûl (i NAAAAZGÛLLL!!!).


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La serata era quasi giunta al termine, eravamo rimasti in pochi, tutti illuminati dalla serenità e dalle birre ormai vuote. Spegnemmo la luce principale tenendo accesa una piccola lanterna nella stanza accanto. Due giovani amanti, ora sposati, avevano cominciato la loro storia in quel preciso momento. Lui mi raccontò di aver fatto l'amore con lei la notte stessa. La vita è inaspettatamente bella delle volte, e mi piace pensare di essere stato un po' l'artefice di questo grande amore.

Intanto io vagavo per la grande sala, bevendo e canticchiando le canzoni dei Led Zeppelin in sottofondo. Non ricordo i miei pensieri, ma sono certo di aver percepito qualcosa quella sera, un sottile solletico allo stomaco, quello che anticipa le grandi occasioni.

E fu in quel momento, nel buio tiepido del centro sociale di Caldarette Ete, frazione di Fermo, che lei si avvicinò a me regalandomi la prima, grande, emozione della mia matura adolescenza.

E che sensazione nuova provai... se dovessi esprimere un desiderio vorrei vivere eternamente sensazioni nuove.

Si allontanò sorridendo. Non successe mai nulla fra me e lei e non ne parlammo mai negli anni a venire. Rimase un tacito segreto da sfogliare nel grande libro dei ricordi.



martedì 17 gennaio 2017

Le foto di Stefano Cucchi

Da qualche tempo circola su internet la foto del cadavere di Stefano Cucchi, il ragazzo romano morto in ospedale nel 2009  in circostanze ancora da chiarire e di cui si continua a parlare da quasi 10 anni. 
Quella foto mi ha colpito, come credo succeda ad ogni essere umano provvisto di un minimo di sensibilità. Il suo scopo è dimostrare quanto la giustizia sia ancora troppo teorica all'interno del nostro sistema legislativo, legata più a voli pindarici che non propriamente ai fatti che hanno la forma di lividi e fratture lungo il corpo martoriato del ragazzo, simile ad una mummia peruviana.
Non sto qui a giudicare, non è il mio compito e manco di competenza in materia, spero solo che si giunga alla verità un giorno o l’altro. Mi permetto solo di aggiungere che quel genere di contusioni credo siano difficili da farsi con una “caduta”. Comunque...
Quello su cui volevo riflettere riguarda il senso, o più propriamente il significato di quelle foto: da una parte le trovo fastidiose, perché ad ogni articolo di giornale, ad ogni ricerca su internet (anche non legata al suddetto fatto), ad ogni telegiornale o blog, spuntano fuori cogliendomi impreparato, sorpreso, impaurito. E trovo che diffonderle cosi liberamente e sfacciatamente sia una mancanza di rispetto per il defunto, divenuto “quasi” un’icona pop del nostro tempo.
Poi penso alla famiglia, ad una ricerca della verità che si prolunga da 8 anni, e che trova in quelle rappresentazioni crude, violente e flagranti l’unica speranza di giustizia: “Guardate con i vostri occhi e giudicate”. E forse le foto diventano il mezzo per rafforzare la dignità della vittima.
Ma perché dobbiamo arrivare a tanto? Perché ad ogni morto, ad ogni testa decapitata dall’ISIS, ad ogni tragedia ambientale (quale terremoti, incendi, alluvioni) i media devono “godere” di queste immagini moltiplicandole in ogni luogo e in ogni forma? Perché dobbiamo far vedere per credere?
Per me si tratta di una pericolosissima forma di feticismo; nel caso di Stefano Cucchi lo capisco, e ho paura che possa accadere lo stesso per Giulio Regeni, riconoscibile solo dal naso come raccontato dalla madre durante il riconoscimento del corpo.

In generale lo condanno, la morte non è un poster da appendere in camera, è un fatto della vita che va rispettato in quanto tale.