sabato 29 giugno 2013

Le camere vuote

Quando ripenso alla mia infanzia spesso rivedo le camere vuote. Si tratta di stanze dove in un modo o nell'altro sono cresciuto, stanze che per motivi legati a brevi vacanze o a trasferimenti familiari, ho dovuto spogliare delle mie cose. 
Tra le prime che mi vengono in mente c'è sicuramente la stanza "dei due lettini": si tratta di una piccola camera a casa di mia nonna, caratterizzata per l'appunto da due piccoli letti in cui dormivano mio zio e mia madre da bambini; quella piccola camera è stata per me una vera e propria culla estiva dove giocavo con mio fratello e i miei cugini prima di andare al mare o nei pomeriggi temporaleschi; dove guardavo a volume bassissimo la piccola televisione sony dato che avevo paura del buio "antico" della casa di mia nonna; dove aspettavo con ansia la mattina per sentire zio Paolo salire le scale e chiamarmi per andare tutta la giornata al mare, caro zio Paolo... Poi a settembre me ne tornavo a casa mia e mia madre cominciava a svuotare i cassetti, i ripiani, gli armadi, ricominciava il ciclo insomma, scuola, casa, partite di calcio con gli amici, e così via.
Poi c'è la camera di casa vecchia, la penultima casa in cui ho abitato dal 1994 al 2005. Ricordo il giorno del trasferimento, erano tutti indaffarati tra scatole e pacchi vari, ero momentaneamente solo in casa; entrai per un'ultima volta nella mia stanza: il pavimento si era trasformato in una distesa immensa senza il tappeto, la scrivania e l'armadio; mentre scorrevo con gli occhi le pareti vuote vi rileggevo tutto il tempo speso li dentro, le chiacchiere con i miei fratelli e i miei amici, i giochi, i momenti di tristezza, di gioia, quella sensazione fantastica di ansia pre-gita scolastica in cui mi ripetevo continuamente "manca poco, passa in fretta notte!", la sveglia puntualissima di mia madre per andare a scuola, le nottate passate a disegnare e a leggere fumetti. Mi è ancora molto cara quella camera.
A proposito di gite un'altra camera è quella dell'albergo a Budapest, in terza superiore, e a Monaco in quinta. La prima era grandissima, con tanto di divano, ricordo che scardinammo una porta per fare uno scherzo ad un nostro amico, della serie "coglioni si, ma con stile". La seconda mi è ancora più cara perché fu l'ultima stanza dove ho dormito con i miei compagni, tutti insieme, durante l'ultima memorabile gita delle superiori; fu una sensazione strana quella che mi accompagnò mentre facevamo le valigie, come se lo stomaco mi stesse mettendo in guardia: "goditi questi ultimi istanti e imprimili bene nella mente, saranno un ottimo rifugio"; così facemmo una foto, quattro amici e un letto, pochi secondi prima dello scatto uno dei quattro invece di dire il solito "CHEEESEE" disse "ultimaaaaaa" segnando di fatto la fine della mia infanzia.
Adesso le stanze vuote sono quelle di Grenoble, sto preparando le valigie, dopo 10 mesi torno in Italia. Ieri c'è stata l'ultima festa e fa strano vedere le stanze dei tuoi amici conosciuti qui in Francia in procinto di svuotarsi dopo che in tutto questo tempo, letteralmente volato, hai imparato a conoscerli e a conviverci anche all'interno di quelle stesse stanze. Mi piace pensare che si svuotino soltanto materialmente e che in qualche modo possa rimanere al loro interno sempre una piccola parte di noi che ci siamo "passati" e che stiamo crescendo troppo velocemente, troppo.

mercoledì 19 giugno 2013

La calma, la tempesta e altre storie.

19 giugno 2013,

La calma.
 
Ho portato a termine i miei doveri da studente, la tesi è conclusa, resta solo la discussione prevista per il 2 luglio à quatorze heure. La sensazione è quella di aver fatto un buon lavoro, completo, originale e "scientifico", la laurea triennale non è nulla in confronto alle 136 pagine di quest'anno (mai scritto tanto in vita mia in una sola volta).
Lo sforzo mentale è stato devastante, sono molto stanco indubbiamente, eppure quest'esperienza mi ha permesso di capire quali siano i limiti che posso sopportare: l'ansia si è accomodata sul trono del mio stomaco e non intende schiodarsi da li, neanche adesso che "il più" è fatto, poiché ci sono sempre pensieri che intrattengono la suddetta, come l'idea di aver sbagliato l'impaginazione, un errore bibliografico, una nota scritta secondo linee guida clamorosamente inventate di sana pianta, su cui l'unica giustificazione sarebbe quella di appellarsi ai propri diritti intellettuali vaneggiando della superba artisticità di cui quelle stesse note sono la più grande testimonianza. 
Poi penso che tutto è concluso, errori o meno non si può tornare indietro, tanto vale godersi due giorni di meritato riposo prima di cominciare a scrivere il discorso per la discussione, "pace fratelli".

La tempesta.

Altrimenti nota come "Il ritorno a casa". In realtà non sono così depresso all'idea di riabbracciare le Marche; il vivere fuori porta con sé tanti vantaggi, tra cui quello di capire il valore reale delle proprie radici, ad esempio mi è capitato di incontrare qualche marchigiano qui in terra francese: sentire i suoni gutturali del proprio dialetto (o storpiatura dell'italiano che dir si voglia), alcune "locuzioni" così familiari, usuali, che sempre hanno accompagnato la propria crescita, beh... è stato bello, perché effettivamente ci si rende conto di far parte di una regione bellissima a cui non si vuole rinunciare, una regione che si è creata una propria cultura fatta di tradizioni contadine, vino, castagne, feste popolari, il tutto ambientato in centri storici medievali e/o romani che si affacciano tra mare, monti e colline. Poi è chiaro, non ci vivrei mai per tutta la vita, le differenze sono troppo evidenti, io punto Parigi. Tornare ma non restare.
E allora questa tempesta? Ebbene, è la consapevolezza di tornare in un ambiente familiare che non mi si addice, che mi stressa, mi logora, mi infastidisce, mi rende cinico; voglio la mia indipendenza, e la voglio circodare delle persone che più apprezzo della mia famiglia e della cerchia dei miei amici, escludendone altre che hanno perso il loro treno tempo fa, e vi assicuro che sui binari è passato ad intervalli regolari per molto tempo. 

Altre storie.

La prossima volta.


venerdì 7 giugno 2013

If it doesn't come bursting out of you in spite of everything, don't do it...

...e pensare che a me Bukowski non piace, troppe mutande sporche per i miei gusti; eppure qualcosa mi ha colpito in So you want to be a writer? Non che voglia fare lo scrittore, non è nelle mie capacità purtroppo: poca fantasia, mani pesanti, pensieri troppo comuni da non permettere lo slancio. E poi lo farei per i soldi e per la fama, quindi, come dice il caro ubriacone Charles, "don't do it".
Farlo solo per me stesso già sarebbe diverso, anche se questo blog ne mina l'intento e la credibilità; un buon esercizio sicuramente (due righe insieme bisogna saperle mettere nella vita) e una valvola di sfogo, per non dire un semplice passatempo. Alla fine lo scrivere e il leggere hanno sempre sostenuto una buona parte della mia infanzia, a stento magari, legando a qualche presunta rima poetica una data situazione che, con la testa di adesso, non risulta essere poi così sconvolgente, ovviamente; non si può essere Rostand tutta la vita, ahimé. 
Ed ecco il punto: alla fine si vuole somigliare a qualcuno, a tutti i costi. Io, ad esempio, volevo essere Modigliani mentre recitava Dante alla comunità di Montmartre; Cyrano in punto di morte, con tanto di pennacchio offerto alle stelle (scusa Charles, a me le stelle piacciono); Jack Kerouac invocante il nome di Dean Moriarty dopo aver girovagato per tutta l'America; Atticus Finch nella sua infinita umanità, moralità e tolleranza; Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham per entrare nell'Olimpo; una frase di Leopardi, di Montale o di Pavese, per ricordarmi che vengo da un luogo circondato da campagna, mare e montagna. Tuttavia non credo di essere ancora pronto per aggiungere il mio nome a quella lista.
Visto? è uscito tutto pazientemente, come un ruggito. Che ne dici caro vecchio Bukowski?