Da
qualche tempo circola su internet la foto del cadavere di Stefano Cucchi, il
ragazzo romano morto in ospedale nel 2009 in circostanze ancora da
chiarire e di cui si continua a parlare da quasi 10 anni.
Quella foto mi ha colpito, come credo succeda
ad ogni essere umano provvisto di un minimo di sensibilità. Il suo scopo è
dimostrare quanto la giustizia sia ancora troppo teorica all'interno del nostro
sistema legislativo, legata più a voli pindarici che non propriamente ai fatti
che hanno la forma di lividi e fratture lungo il corpo martoriato del ragazzo, simile
ad una mummia peruviana.
Non
sto qui a giudicare, non è il mio compito e manco di competenza in materia,
spero solo che si giunga alla verità un giorno o l’altro. Mi permetto solo di
aggiungere che quel genere di contusioni credo siano difficili da farsi con una
“caduta”. Comunque...
Quello
su cui volevo riflettere riguarda il senso, o più propriamente il significato
di quelle foto: da una parte le trovo fastidiose, perché ad ogni articolo di
giornale, ad ogni ricerca su internet (anche non legata al suddetto fatto), ad
ogni telegiornale o blog, spuntano fuori cogliendomi impreparato, sorpreso,
impaurito. E trovo che diffonderle cosi liberamente e sfacciatamente sia una
mancanza di rispetto per il defunto, divenuto “quasi” un’icona pop del nostro
tempo.
Poi
penso alla famiglia, ad una ricerca della verità che si prolunga da 8 anni, e
che trova in quelle rappresentazioni crude, violente e flagranti l’unica
speranza di giustizia: “Guardate con i vostri occhi e giudicate”. E forse le
foto diventano il mezzo per rafforzare la dignità della vittima.
Ma perché
dobbiamo arrivare a tanto? Perché ad ogni morto, ad ogni testa decapitata dall’ISIS,
ad ogni tragedia ambientale (quale terremoti, incendi, alluvioni) i media devono
“godere” di queste immagini moltiplicandole in ogni luogo e in ogni forma? Perché
dobbiamo far vedere per credere?
Per
me si tratta di una pericolosissima forma di feticismo; nel caso di Stefano
Cucchi lo capisco, e ho paura che possa accadere lo stesso per Giulio Regeni,
riconoscibile solo dal naso come raccontato dalla madre durante il
riconoscimento del corpo.
In
generale lo condanno, la morte non è un poster da appendere in camera, è un
fatto della vita che va rispettato in quanto tale.
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